Fondo Giuseppe Viviani

Periodo: XX

Considerata la ricchezza e la coerenza delle opere di Viviani che la Fondazione possiede s’impone qualche parola su questo pittore-incisore, nostra gloria cittadina, sicuramente una delle personalità di maggiore rilievo e spessore del primo Novecento non solo pisano, ma italiano. Per quanto illustri studiosi abbiano ripercorso con acume e sensibilità critica la parabola artistica e professionale, oltre che umana, del “principe di Bocca d’Arno”, la sua opera rimane ancora troppo spesso confinata all’interno delle pagine di storia della cultura locale, senza raggiungere quelle dei manuali di storia dell’arte nazionale. “Principe di Bocca d’Arno”, epiteto che Viviani stesso si dette e che non ha avuto e mai ne avrà di eguali nel definire l’intrinseco e indissolubile legame che ha unito l’autore all’ambiente in cui era nato, cresciuto, in cui aveva fatto, da autodidatta, le prime esperienze professionali, e che costituì tutto il suo mondo fino alla morte, anche quando la notorietà gli arrise, portandolo alla ribalta nazionale, tanto da ottenere nel 1955 la cattedra di incisione prima all’Accademia di Belle Arti di Carrara e, due anni più tardi, nel 1957, l’analogo insegnamento presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze.

Che Viviani sia stato un vero maestro nel campo dell’incisione è scontato e superfluo ripeterlo. Che questa sua riconosciuta ed apprezzata maestria nell’incisione abbia offuscato e relegato in secondo piano la sua attività pittorica è del pari vero. Ciò dette all’artista stesso più di un motivo di rammarico: del resto basta confrontare la assidua quantità di premi ricevuti per la sua pratica calcografica con l’esiguità di quelli ricevuti per la pittura, oltretutto in contesti piuttosto provinciali. Eppure è proprio come pittore che Viviani esordisce intorno al 1916, data a cui risale l’olio con La casa dei nonni a Caprona; e poi ancora Il Ponte dellaCittadella (1917), Il retone a Bocca d’Arno (1920), Il Bosco di Tombolo (1923), espressioni di un intenso legame con i luoghi di nascita e della propria adolescenza, restituiti all’occhio dell’osservatore con forme e modalità ormai attardate, ancora macchiaiole per spirito ed impostazione. Del resto sarebbe stato difficile pensare altrimenti: un giovane autodidatta pisano a cosa avrebbe dovuto guardare se non alle esperienze tematiche e tecniche create dai seguaci di Diego Martelli? Intorno alla fine degli anni Venti e poi per il lustro seguente si fanno evidenti i contatti con quel circolo culturale che a Torre del Lago aveva riunito i migliori ingegni post-macchiaioli, alcuni dei quali come il viareggino Lorenzo Viani aveva già fatto il suo “stage” di aggiornamento a Parigi, e poi Spartaco Carlini, Carlo Carrà.

Seppure abbia sempre voluto dare di sé l’impressione di un uomo avulso dalle grandi correnti e in qualche modo interprete unico ed isolato, in realtà non c’è dubbio che per la sua stessa sensibilità Viviani abbia avuto ben presenti gli esiti dei suoi compagni di viaggio. Case ed albero del 1929, La casa dei poggi del 1931, Barca e case del 1933 sono solo tre fra gli esempi più calzanti di una condivisione, seppure temporanea, di certi esiti perseguiti dal Carrà: sono composizioni apparentemente senza tempo, rarefatte, in cui la purezza e il nitore dei volumi vuole creare una sorta di realtà cristallizzata. Poi comincia la fase dell’elaborazione di una propria poetica, intimamente connessa con le presenze e i luoghi della vita quotidiana. Le composizioni si vanno facendo sempre più essenziali, ridotte al minimo, eppure tra il suo astrattismo e quello di De Chirico o Morandi c’è sempre una profonda differenza: quello di Viviani è un astrattismo umanizzato, triste e disilluso, ma pur sempre commosso, nel senso letterale del termine “cum movere”, compartecipe; anche quando questo significa far presente, con ironia e pungente realismo, le ipocrisie della moderna società.    

(Agnano, Pisa 1898 - Pisa, 1965)



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