“Sotto la mia apparenza tranquilla, sono un uomo tormentato”.
Con tutta la sua potenza primordiale l'arte di Miró è esplosa in una mostra di dieci anni fa a Palazzo Blu, che descriveva il legame viscerale di questo artista taciturno e ribelle con la terra, con la tradizione popolare, con un Mediterraneo inteso come luogo lirico e con quel racconto anonimo collettivo, quella presenza umana nelle cose, che diventa mito. In un percorso fatto di grandi tele dai colori plastici e aggressivi, di sculture divertenti e mostruose, di gioia e materia abbiamo scoperto la lotta tra istinto e metodo; un mondo che nasce da incidenti voluti e in cui l’arte è intesa come un processo di scoperta, non definitivo - per questo fecondo: “il quadro deve fecondare l’immaginazione”
Nelle piccole tele dal movimento immobile, nei segni evocativi, calligrafici o germinanti di vita, immersi in ampi orizzonti dal perfetto equilibrio musicale abbiamo invece trovato tutto il senso del viaggio di un poeta visivo di rara raffinatezza: semplicemente, Miró.
“Per me era la libertà più grande. In un certo senso, la perfezione assoluta. Era così autenticamente pittore che gli bastava lasciar cadere tra macchie di colore su una tela perché questa esistesse e fosse un quadro” (Alberto Giacometti).