Orazio Riminaldi (Pisa, 1593-1630)


Poche opere hanno la forza di lasciarci sospesi come il ritratto di quest'uomo che emerge piano dalla penombra, con uno sguardo fatto di consapevolezza muta e di umana dignità. Nella luce che colpisce lo zigomo prende vita l’occhio che esita; nei radi ciuffi bianchi tra capelli e pizzetto si rivela il tempo che passa; un alto collare di morbide pieghe è tutto ciò che, della vanità umana, affiora da un fondo cupo. Non è difficile capire le ragioni che spinsero l’uomo ritratto, Curzio Ceuli, ad amare il suo ritrattista, Orazio Riminaldi. L’uno era il fiero esponente di una famiglia di antico lignaggio che aveva curato gli affari dei papi nel secolo di Michelangelo; l’altro era un pittore promettente che aveva lasciato Pisa per Roma dove, nutrito sugli esempi di Caravaggio e dei bolognesi, aveva fatto fortuna coniugando il dramma umano a una dolce comprensione. Curzio Ceuli, che nel 1616 era diventato amministratore della Fabbrica del Duomo di Pisa, recentemente colpito da un disastroso incendio, si era messo in testa di arricchirlo di opere antiche e nuove, farne una sorta di “museo della città”; in quella sua ambiziosa visione, Orazio Riminaldi giocava un ruolo fermo. Al pittore, tra le altre cose, Ceuli aveva affidato il compito più arduo: decorare la cupola secondo il gusto aggiornato di Roma. Riminaldi rispose con un bozzetto, anch'esso a Palazzo Blu, in cui la Vergine ascendeva in un turbinio emotivo e sensuale, sontuoso e delicato. Curzio approvò, e Orazio si risolse a tornare a casa da quel centro del mondo che lo aveva acclamato, e che era Roma.