«Quando ero bambino mia madre mi diceva: “Se farai il soldato diventerai generale. Se farai il monaco diventerai Papa”. Ho voluto essere pittore e sono diventato Picasso» Nella maestosa affermazione della sua audacia, c’è tutto il senso della mostra che Palazzo Blu dedicò, nel 2011, al più rivoluzionario artista del Novecento. Oltre duecento opere, in qualsiasi tecnica, ci immergevano come nelle pagine di un diario fitto, fatto di segni, furia, tensione creativa, pensiero e amore per la vita. «Dipingo come gli altri scrivono le autobiografie»; «ciò che mi interessa è mettere le cose in movimento, provocare questo movimento per mezzo di tensioni opposte, e in mezzo a tale tensione cogliere il momento che mi sembra più interessante», diceva Picasso, e questo suo gusto per l’indagine, unito all’urgenza di abbeverarsi alla sorgente perenne del classico, faceva della sua tumultuosa esperienza qualcosa di sempre imprevedibile e tale da lasciare sbigottiti, affascinati, avvolti da domande. Dalla miseria scavata nella realtà dei visi del suo periodo blu al desiderio di afferrare l’ineffabile che eternamente muove l’esperienza dell’artista, dalla scomposizione delle forme che ha ridefinito l’estetica alla creazione di una mitografia fatta di corride, minotauri, donne e voyeurismo, ci siamo ritrovati tra segni sanguigni e impegno politico, tra violenza e purezza, ma sempre in contatto con la concretezza del reale. Come una fenice che risorge dalle sue ceneri, Picasso ci ha trascinati in una continua metamorfosi tra arte e vita: «Picasso è una corrida» (André Chastel)