La rappresentazione della figura umana e, specificatamente, il ritratto, sono forse gli ambiti che caratterizzano in modo preminente la produzione artistica di Alessandro Volpi. Nonostante le ovvie differenziazioni stilistiche che segnano, nel corso del tempo, la crescita e l’affermazione della personalità del pittore, c’è un elemento che permane e rende i personaggi dipinti da Volpi così vicini a chi li guarda: non c’è traccia di eroismo in quegli sguardi dimessi, testimoni, il più delle volte, di una realtà popolare; non ricerca dell’esemplarità, bensì piuttosto tenue accettazione della propria condizione e della vita, una consapevolezza che esprime e ci comunica una grande umanità e un pragmatismo non comuni.
Questo “antieroismo” lo ritroviamo nel ritratto della madre: basterebbe la sola posizione delle spalle, non erette bensì richiuse su se stesse, a richiamare alla mente una situazione intima, un contesto, insomma, che introduce ad una quotidianità capace di suggerire un ripetersi ciclico di azione e riposo. La stessa tacita accettazione sembra potersi cogliere nella Figura femminile, rappresentata a mezzo busto. Pennellate larghe costruiscono il soggetto e definiscono le linee di contorno, ma con una tendenza più accentuata alla geometrizzazione delle forme. C’è una maggiore tendenza alla resa bidimensionale e si possono riscontrare chiare linee di contatto con l’espressionismo dei fauves, Matisse ma anche Dérain, la cui incidenza fu tutt’altro che marginale nell’arte italiana della prima parte del Novecento. Tuttavia i principali punti di riferimento del Volpi restano italiani, ossia Carena e Viani, intendendo il rapporto con il viareggino come una dipendenza più che altro formale, essendo i personaggi del Volpi “spogli d’ogni connotazione ideologica e inquietudine esistenziale, semmai composti in una loro antica e silenziosa dignità che imprime al dolore un che di solenne”. Le due figure possono avere una medesima collocazione cronologica, con tutta probabilità tra gli anni ’40 e ’50.