La figura del cieco è un soggetto che è stato più volte affrontato da Alessandro Volpi, sia trattandolo dal punto di vista femminile o maschile, sia stravolgendone i modi di rappresentazione o riproponendo semplici variazioni sul tema. La scena è inserita all’interno di un lacerto di paesaggio che, attraverso poche forme ben riconoscibili, suggerisce l’idea di un luogo impervio. La scelta di questa precisa ambientazione è probabilmente ascrivibile alla decisione dell’autore di non limitare la rappresentazione ad un personaggio o ad una situazione contingente, quanto piuttosto di richiamare l’attenzione dell’osservatore su una condizione esistenziale: “L’opera di Volpi è sempre sorretta da un interesse appassionato per la vita, da una straordinaria capacità di attingere materia di racconto dalle vicende umane, una capacità di stupore e di abbandono quasi infantile, più spesso lo stupore offeso dell’uomo che ha patito ogni prova sulla propria pelle”.
Il modo di trattare la figura, rilevata plasticamente attraverso il colore e il chiaroscuro, che sa quasi di esercizio d’accademia, permettono di assegnare l’opera alla fase prebellica, cioè ad un periodo di non piena maturità pittorica, come lasciano pensare talune incertezze formali e durezze che sanno più di arranco compositivo che di meditata scelta stilistica. Tuttavia, pur rilevando l’autonomia del percorso artistico del Volpi, par di scorgere taluni richiami ad alcune esperienze pittoriche coeve, magari indirette o mediate, soprattutto a Ferrazzi e Pirandello, la cui meditazione sul nudo è centrale nella pittura italiana di inizio Novecento.