La pittura di paesaggio rappresenta uno dei filoni nell’intera opera del Volpi. Al Volpi non mancavano riferimenti per poter apprendere un linguaggio che per lui, pittore praticamente autodidatta, non aveva una chiara ascendenza o un referente d’obbligo, magari da cui partire per poi prenderne le distanze: Salvatore Pizzarello, Spartaco Carlini, Federigo Severini, Ferruccio Pizzanelli, Gino Bonfanti, Eugenio Sementa, Giuseppe Viviani, Umberto Vittorini, sono solo alcuni degli artisti che lavoravano nella Pisa degli inizi del secolo scorso, intrecciando le proprie ricerche e perseguendo in autonomia percorsi creativi distinti. Nei paesaggi di Volpi troviamo in effetti sintetizzate diverse esperienze, unite in un linguaggio che resta pur sempre ricco degli imprescindibili riferimenti ai maestri di sempre, primo fra tutti il Carena, nella pennellata fluida e corposa; eppure Volpi, proprio nel paesaggio, non si accontentò mai di rimanere chiuso entro i confini del linguaggio postmacchiaiolo da cui naturalmente aveva mosso i primi passi. L’Arno a Caprona e Paesaggio tradiscono una tendenza a definire plasticamente le forme.
Nella rappresentazione della visuale sull’Arno è inoltre possibile riconoscere l’intima empatia di Volpi per la natura in sé, vissuta nel quotidiano, anche come ambiente di lavoro, sia essa bosco, mare, o fiume; ed anche in questo spaccato di paesaggio ritorna la presenza della descrizione dell’acqua con “i suoi abbacinanti riflessi, dentro questi ritmi di azzurro, dentro queste cadenze cromatiche che hanno talvolta la sonorità del metallo e la trasparenza dell’aria”. Se ne L’Arno a Caprona prevalgono le pennellate brevi e disarticolate, in Paesaggio viene potenziata ancora di più la valenza costruttrice del colore, che si fa puro corpo, materia a tutti gli effetti. L’essenzialità della rappresentazione, che delinea in pochi tratti schematici i contorni di una strada, una casa e gli scheletri di qualche arbusto, trasmettendo un senso di quiete e silenzio, ci riporta quasi in quell’atmosfera di sapore metafisico alla Carrà, resa però con un linguaggio assai più robusto, di diretta impronta artigianale. Entrambi i paesaggi, proprio per questa adesione sentita, ma personale, ai modelli recenti o coevi, italiani e non, possono trovare adeguata collocazione tra gli anni all’interno del quinto decennio del Novecento.