Giorgio de Chirico, per tutta la vita, si è visto come un cavaliere errante. Nato a Volos, luogo di partenza della mitica spedizione degli Argonauti, e figlio di un ingegnere ferroviario, tra distacchi traumatici, delusioni e gioie, si è spostato tra Grecia, Monaco, Milano, Firenze, Torino, Parigi, Ferrara, per approdare definitivamente, negli ultimi trent’anni della sua vita, a Roma.
Moderno eroe, nella sua” Pro technica oratio” del 1923, Giorgio scriverà che l’artista, nel mondo misterioso e magico della pittura, porta lo stesso amore, la stessa fede, la stessa curiosità, e lo stesso coraggio che il cavaliere del medioevo portava nel suo lungo viaggio, tra pericoli e sorprese; per poi tornare, stanco, nel “dolce patrio albergo”.
Nel “Ritorno al castello avito” (1969) il cavaliere è un’ombra spettrale, che attraversa un ponte per raggiungere il castello e trovare finalmente la pace, nel rifugio dei ricordi della casa paterna: “L’arte è il ponte che unisce il nostro mondo con l’aldilà, e i pensieri equipaggiati per il pericoloso viaggio in un altro mondo, possono attraversare questo ponte in tutta tranquillità”
Un anno dopo, nelle vesti di “Orfeo trovatore stanco”, de Chirico compie il suo viaggio finale: si rappresenta in una piazza metafisica, mentre dietro le quinte di un velo teatrale riemerge, dal cielo verde veronese, lo spettro di un castello. È il passato che ritorna, in una nuova veste che si chiamerà neometafisica.