La speranza del navigatore.
“Ci sono nei miei quadri forme minuscole in grandi spazi vuoti. Gli spazi vuoti, gli orizzonti vuoti, le pianure vuote, tutto ciò che è spoglio mi ha sempre molto impressionato”.
Nello spazio desolato è come sospesa la possibilità di un movimento, la possibilità di una scoperta: una speranza.
Lo spazio desolato è il miglior punto di partenza.
Nel ciclo La speranza del navigatore, così come in Musica del Crepuscolo, Pittura I, Pittura III, o in Arcipelago selvaggio è proprio il piccolo formato ad amplificare la vastità delle possibilità. Miró, alla ricerca di quella magia che nasce dall’equilibrio degli opposti (un movimento immobile, un silenzio eloquente, una musica muta) sapeva che un grande spazio è sempre il frutto di un’evocazione, e che un’opera d’arte non deve racchiudere qualcosa di definitivo, ma rendere possibile l’inizio di qualcosa.
Non stupisce dunque che sia proprio nelle piccole cose che sentiamo la vastità dell’universo, e che qui, meglio che altrove, sia possibile “far irrompere l’infinito nel finito”. “Hokusai diceva che voleva sentire una vibrazione nel punto più piccolo dei suoi quadri” - ricordava Mirò; era un modello da seguire, per lui che si sentiva in profonda consonanza con lo spirito giapponese e che si misurò anche con gli haiku, poesie preziose non più lunghe di tre versi.
Le sculture di Mirò
“È nella scultura che creerò un universo davvero fantasmagorico, dei mostri viventi"
diceva Miró, e in effetti le sculture che popolavano la mostra di Palazzo Blu avevano un aspetto inquietante, ma anche giocoso. Nate spesso dal calco di oggetti “trovati per un caso divino”, o che l’artista collezionava, combinati accidentalmente per provocare quella “magica scintilla” che dischiude infinite possibilità, le sculture di Mirò erano fatte per vivere anche all’aperto “affinché possano fondersi con la natura”, sebbene Miró le immaginasse popolare il suo atelier: “entrandovi, dovranno procurarmi una fortissima impressione, come se fossi capitato in un nuovo mondo”.
Esse rapiscono la nostra fantasia grazie alle loro forme primordiali e a una forza tellurica che sembrano possedere: “così semplificati, i miei personaggi appaiono più vivi”; se avessero tutti i particolari “mancherebbe loro quella vita immaginaria che ingrandisce ogni cosa”. Il rapimento avviene per mezzo di una non celata aggressività plastica, perché bisogna “dapprima provocare una sensazione fisica, per poi arrivare all’anima”.
Collegandosi, con le loro forme arcaiche e evocative, a quell’“arte anonima” che è la sorgente profonda della mitologia di Mirò, le sculture ci chiamano a un confronto giocoso con le nostre radici: nel loro fondere mito, terra, caso e fantasia, appaiono uno dei lasciti più felici del grande artista catalano.
© Fundació Juan Miró, Barcelona